22.5.10

Limone panna caffè

In certi momenti mi colpisce ancora il lampo dell'immagine di noi che ridevamo.
La complicità corposa, si stringeva tra le dita. Riesco ancora a sentirne il profumo. Profumo di sorbetto al limone: zuccherino aspro. Me ne riempivo le narici, quando lo avevo vicino. Chissà che odore avevo io per lui: magari di caffè, con un ricciolo di panna.
Su questo si cementava il nostro naturale essere noi: la lieve morbidezza del latte, nascosto sotto ad una scorza di limone e al pungente aroma di caffè. Il buon vecchio binomio dell'amaro e del dolce. Equilibrio quantomai perfetto e precario.
Un'affinità mai dichiarata. Non aveva bisogno di parole per definirsi, e non poteva permetterselo: una parola in più sarebbe stata una folata di vento sul castello di carta. Lo sapevo bene, lo sapevamo entrambi. E ci limitavamo a pensare.
Riflettendoci, eravamo come un piccolo ecosistema basato su spontanee regole di sopravvivenza, che rispettavamo senza esserne coscienti. Era nato dal nulla, e si rigenerava autonomamente ogni volta che ci ritrovavamo tra quelle quattro mura. Una bolla di sapone con le porte, da cui entravamo ed uscivamo, trovandoci e riperdendoci.
Ma l'equilibrio, l'ho detto, era perfetto quanto precario. Mi accorsi che fuori dalla bolla mi mancava l'aria. Respiravo a pieni polmoni solo dentro di essa. E le porzioni di tempo che trascorrevo all'esterno le ammazzavo trascinando i minuti uno dopo l'altro, nella snervante attesa che si aprisse la porta. Il profumo di sorbetto al limone era ormai l'unico anelito di vita vera, vibrante.
Per questo preferii uscire dalla bolla per sempre. Non volevo esistere ad intermittenza, non me l'ero cercato e non sarei riuscita a sopportarlo. Scelsi di abbandonare l'ecosistema prima che venisse allagato da un mare salato.
Ritrovai il tempo della normalità nella vita di tutti i giorni. Madre delle banalità, ma per questo degna di rispetto, la vecchia formula del tempo che cura ogni cosa. E' vero: il tempo relativizza, il tempo allontana, il tempo sbiadisce la memoria come acqua su una fotografia. Il tempo è una cappa sopra la brace: non la spegne, ma fa sì che il fumo non faccia più lacrimare gli occhi. Tanto bastò.
Ma come disse un giorno un uomo molto più saggio di me, il tempo non è gentiluomo, e alle volte non ci lascia libertà di scelta. Una notte di mezza estate, mi imbattei in una di quelle ombre che stavano sullo sfondo del nostro ecosistema, entità che si muovevano strisciando dietro al nostro palcoscenico. Utili quanto superflue.
Fatto sta che quella notte l'ombra, sorridendo come si sorride ad un vecchio compagno di scuola con cui si sono persi i contatti, mi diede una notizia che penetrò nel mio cervello come una lama di ghiaccio, gelando le mie reazioni. La cosa buffa è che la gente non si rende conto mai che quelle che crede chiacchiere da incontro fortuito possano aver appena creato uno scompenso in chi hanno di fronte. Ironia della relatività, radicata nella natura umana come una quercia.
Soltanto il fastidio per la beata ignoranza del mio interlocutore mi risvegliò dall'appannaggio emotivo in cui ero crollata. Mi ero scavata la mia tana nella rassegnazione, ed ora l'incerto bagliore della speranza mi sembrava più spaventoso del buio. Per non dover cercare il coraggio di scegliere, mi autoconvinsi, con una razionalità pragmatica esercitata assiduamente negli anni, che il momento era passato, che la bolla era già esplosa tempo prima. L'avevo distrutta io con un secco colpo di spillo, quando ero uscita sbattendo la porta. Inutile pensarci su.

Una mattina di piena estate, mentre bevevo caffè con un ricciolo di panna da Tiffany, ho sentito alle mie spalle profumo di sorbetto al limone.
Dolce e aspro.
D'altronde, come diceva Capote, “non ci può capitare niente di brutto, là dentro”.