29.5.08

Autoscontro

Giornata impegnativa oggi.. Di quelle che arrivi a sera e hai talmente tanti pensieri e idee che ti vagano in testa da non sapere come gestirli.. Ma il loro bello è proprio questo: quel loro scarrozzare senza traiettoria, come all'autoscontro del lunapark.. Se ti metti ad osservarli da fuori, sono perfino buffi, no?
Non sono quei generi di pensieri che ti preoccupano, o che ti mettono tristezza.. Semplicemente, ti fanno pensare.. ci ragioni, ti arrovelli, cerchi di dargli un verso, poi no, questo no, meglio un altro.. ecco, così già suonano un po' meglio.. E vai avanti così. Oppure scrivi, come faccio io. Che poi, il loro ordine lo trovano da soli.. Sono in gamba, i pensieri..

28.5.08

Vivere e sopravvivere

Ieri, mio fratello mi ha chiesto: "Sei tranquilla?" e io gli ho risposto "Sì". Poi mi ha chiesto: "Sei felice?" e io "Guarda che c'è una bella differenza tra essere tranquilli ed essere felici!". "Lo so, è per questo che te l'ho domandato.. Quindi, sei tranquilla?" "Sì" "Sei felice?" "No, ma sono tranquilla, e già non è poco..". E mi è venuta in mente una canzone che fa "E mi domando se la mia è una vita felice, e so rispondere solo.. che mi piace.."

27.5.08

Il tempo è ladro..

Il tempo è ladro..
Lui non si ferma a pensare ai danni che può provocare. Non chiede permesso prima di passare, non dice "scusate".. Lui entra, passa e porta via con sé le fondamenta della tua vita. Distrugge una famiglia, rovina la vita di una ragazza, sconvolge gli amici. Ti porta via, e senza avvertire. Un attimo prima sei tu, sei giovinezza, sei VITA.. E un attimo dopo sei NULLA. E chi rimane fa fatica a rendersi anche solo conto di quello che succede. Perché c'è dell'incredibile in una cosa del genere..C'è che rimani senza parole, senza fiato, senza respiro. Perdi in un istante buona parte delle tue convinzioni, perché quello che hai davanti agli occhi le smentisce. Nega la possibilità che ci sia giustizia, che ci sia felicità, che ci sia la libertà di vivere..
Cazzo, però: ti poteva lasciare il tempo di dire qualcosa.. Bastava un preavviso di qualche ora, giusto per saperlo. Giusto per avere la possibilità di dire ciao a tutti, di dare un bacio a tua madre. Giusto per.. Ma forse sarebbe stato peggio.. avresti avuto il tempo necessario per capire "che la tua vita finiva quel giorno, e non ci sarebbe più stato ritorno"...e non te ne saresti andato con il sorriso sulle labbra e la gioia di vivere nel cuore, ma con l'angoscia di sapere dove stavi andando..

26.5.08

Pomeriggio di fine inverno

Venerdì 2 Febbraio 2007: Il sole delle quattro del pomeriggio, quando l’inverno sembra già lasciare il palcoscenico alla primavera, è come una di quelle sciarpe leggere, che avvolgono in una lieve e rassicurante sensazione di calore…non solo sulla pelle, non solo sulle guance, ormai abituate ad essere schiaffeggiate dal gelo metallico del vento di gennaio.. E’, piuttosto, quel calore che, dalla superficie, penetra sempre più nel profondo.. e, dopo un soffio di tempo, ti ritrovi con gli occhi che lacrimano per i raggi del sole, ma la sensazione di poter finalmente tirare il fiato, anche solo per un attimo…un momento di pace..
Anche se la musica mi rimbomba nelle orecchie ed il rabbioso abbaiare dei cani fa da sottofondo.. per me questa è pace, è serenità.. E’ la piacevolezza di un attimo, l’appagamento per aver rubato una manciata di minuti ad un pomeriggio banale, prendendolo di sorpresa..
Mi viene naturale, alle volte, perdermi dietro i contorni confusi di questa sottesa malinconia, se così si può definire, che pervade il pomeriggio di una luminosa giornata di fine inverno.. Ne rimango così affascinata.. Dipende forse dall’essere giovane, è quindi un’influenzabile sognatrice? O da una sensibilità tipicamente femminile? O forse è un istintivo bisogno di ricercare il contatto con quella Voce, quella creatura temuta e miscreduta, chiamata Anima?
Che discorsi filosofici.. E pensare che volevo solo sedermi per terra, al sole, con la musica nelle orecchie e penna&foglio tra le mani.. La Voglia di scrivere, non importa cosa, di scrivere per il piacere di farlo, di vedere la punta della penna lasciare la sua precisa scia nera sulla superficie del foglio.. Come un bastone traccia il suo percorso, incidendolo sulla sabbia in riva al mare, in una serata di fine estate.. Disegna linee e lettere, parole donate al vento e all’acqua salata, che, leggendole, le nasconderà per sempre agli occhi altrui..
Ed intanto il sole tramonta.. l’inverno si toglie lentamente il velato drappeggio preso in prestito dalla primavera. Mi accorgo di aver perso la sciarpa leggera che mi riscaldava dentro e fuori.. Chissà se domani il sole la avvolgerà nuovamente su di me..?

La fede che rende ciechi

Fin da bambina sono sempre stata “educata” ad una “cultura cristiana”: sono stata battezzata, ho fatto la comunione, la cresima, ecc ecc. Fin qui, tutto ok. E’ da qualche anno, però, che, com’è naturale, il mio cervello ha iniziato a lavorare autonomamente, pensando a cosa volesse dire REALMENTE essere cristiana…e sono iniziati a sorgere i dubbi. Chiariamo: io sono convinta che ci sia un Dio da qualche parte. Quella che intendo fare non è una “critica alla metafisica” (come direbbe la mia prof di filosofia): ciò che non riesco a mandar giù della religione è la sua istituzionalizzazione in un organismo, la Chiesa, che, a mio parere, dovrebbe rappresentare, se non proprio un modello, perlomeno il tentativo di realizzare concretamente l’ideale cristiano. Purtroppo, questa mia ingenua visione si è ultimamente scontrata con la Fede, cieca ed incondizionata: in un dibattito riguardo alla corruzione della Chiesa e alla sua incapacità di ammettere sinceramente i propri errori, passati e presenti (in particolare, lo scandalo dei preti pedofili), ho scoperto che alla Chiesa si perdona tutto, per così dire: essa, infatti, è composta da uomini qualunque, uguali uguali a tutti gli altri, e come tutti gli uomini, peccano. Benissimo. Ma la cosa inizia a diventare poco tollerabile quando, con questo ragionamento, si tenta di giustificare la corruzione che coinvolge una parte (e sottolineo, una parte) della Chiesa, adducendo come scusante l’idea che il clero è solo il portatore di un messaggio, un misero contenitore: quello che importa è il contenuto, la Verità. Essa non viene minimamente scalfita se il contenitore è un tantino (cito testualmente) “marcio”. Esempio esplicativo: una regola di matematica non è messa in dubbio se il prof te la spiega male; essa è certa, impermeabile ad agenti esterni. Ma qui non stiamo parlando di somma&differenza, bensì di valori, di morale religiosa: come faccio a dare ascolto, a confessarmi, a ricevere il corpo di Cristo da una persona che lo dovrebbe incarnare e che invece, a volte, ne tradisce le leggi fondamentali? Ma il Cieco Credente mi risponde: “E chi te l’ha detto che sono cose vere? Che reportage e articoli giornalistici non siano solo montature? Che il diario di un prete pedofilo che elenca le tecniche per adescare un bambino corrisponda a verità? NON TI FAI PROPRIO SFIORARE DAL DUBBIO?”. Tento allora di attaccarmi a cose di un qualche valore, come processi, testimonianze, CONFESSIONI. Ma niente, non c’è verso: il Cieco Credente fa crollare ogni mia obiezione con la sola forza della sua indiscutibile fede.
E così arriviamo alla morale della favola: va benissimo credere, in qualunque religione e divinità si voglia credere; è un diritto professare la propria fede ed esercitarne il culto.
Ma è giusto abolire la propria AUTONOMA coscienza e sostituirla pari pari con la visione che la Chiesa ti impone? La fede vuol dire veramente perdere la propria capacità di giudicare le cose per come sono, oggettivamente? Criticare la Chiesa, o parte di essa, non vuol dire negarne il messaggio religioso, tutt’altro: attraverso una visione più aperta e critica, anzi, la nostra fede può uscirne migliorata, più profonda. Ed il Credente, da Cieco, diventerebbe Convinto.

Seconda pagina

La vecchia, seduta nella seconda fila di fronte all’altare maggiore, aveva sentito chiaramente i passi frettolosi dell’uomo, ma non se ne era curata, e non aveva alzato la testa neppure di un millimetro. Quel matto veniva tutte le mattine a rubare fiori.. chissà che se ne faceva poi.. Ma ora lei aveva cose più importanti a cui pensare. Doveva incontrare padre Gianni, quella mattina, e l’attesa la stava divorando. Era stanca. Quella notte non era riuscita a chiudere occhio, ma non si era arrischiata a prendere dei calmanti, perchè aveva bisogno di essere completamente lucida. Aveva provato tutti i possibili rimedi alternativi, dalla camomilla alla valeriana, fino a ritrovarsi a contare pecore sul soffitto buio, come una bambina. Tutto inutile. Non era riuscita a prendere sonno. Quel macigno che aveva nel cuore non le dava scampo. A volte le sembrava addirittura di non riuscire a respirare. Aveva ripetuto mille volte tra sé e sè il discorso che aveva preparato per il prete, bisbigliandolo a denti stretti, come se anche i muri della sua casa solitaria potessero condannarla per quello che aveva fatto. Aveva cercato di alleviare la propria pena, aggrappandosi al fatto che in fondo padre Gianni era un uomo di fede, e di buon cuore: forse, non l’avrebbe rimproverata con il suo sguardo severo.. forse, l’avrebbe capita, rassicurata, e infine assolta, con dieci Ave Maria e quattro Padre Nostro. Ma ora, su quella panchina che le gelava il sedere, con l’unica compagnia di un ladro di fiori appassiti, i dubbi e i timori tornavano a serrarle lo stomaco: il suo non era un peccatuccio da lavare via con un rimprovero e un giro di rosario.. “Oh, Signore, aiutami tu.. come devo fare?”
Era talmente persa in quel circolo di pensieri angosciosi, che non si era neppure accorta che il prete era uscito dalla sacrestia e l’aveva raggiunta dalla navata laterale. Così, quando le battè delicatamente una mano sulla spalla china, la donna sobbalzò per lo spavento. “Mi scusi, non era mia intenzione spaventarla. Che succede? Che cosa l’ha condotta nella casa del Signore a quest’ora del mattino?” “Padre, devo confessarmi”. L’uomo annuì e le fece gesto d’inginocchiarsi: la chiesa era deserta, non c’era bisogno di chiudersi nel confessionale.
“Dimmi figliuola”. “Padre, abbia pietà di me, perché ho molto peccato…”

In treno...

Giovedì 14 Febbraio

L’uomo di fronte a me: a guardarlo bene deve essere piuttosto giovane. Eppure dà l’impressione di una persona matura: l’espressione seria, quasi severa, come se la vita l’avesse già segnato, quel volto. Lo sguardo è tagliato verso il basso, condannandolo ad un’espressione perennemente triste.
Ha mani affusolate, da pianista, dita lunghe, le vene visibili sulla pelle chiara. Lo strano anello che porta -una fascetta alta, di metallo scuro- stona un po’ nell’insieme tanto serioso. Brutte scarpe, con l’allacciatura che arriva fino in punta.
Più lo guardo e più mi rendo conto che tutta quella serietà che emana è concentrata nel viso. Nell’insieme, sembrerebbe un ragazzo normalissimo: capelli corti un po’ sparati, un golf blu a V, un banale paio di jeans. Un neo spunta dal collo della camicia. La borsa a tracolla fa molto universitario. Ma quell’aria così sobria lo fa sembrare piuttosto il classico impiegato di banca.
Non so perché, ma dà l’idea di un tipo piuttosto nervoso: il modo in cui parla, in cui si muove. Sembra inquieto. Perché tanta serietà? Cos’è che non lo fa sorridere? Sembra che non sia proprio abituato a farlo. Qualche preoccupazione. O forse solo una vita monotona, sempre uguale a se stessa, che ormai regala pochi motivi per sorridere. Vive ancora con i suoi; è sempre stato un figlio modello, ottimi voti a scuola, tanti interessi. Poi ha fatto l’università. Ingegneria. Ora sta facendo il master, e intanto lavora. Ma ha trovato solo un posto da impiegato, che lo annoia a morte. Ultimamente le cose non vanno per il verso giusto: la fidanzata storica l’ha lasciato; la vita sotto lo stesso tetto dei genitori si è fatta pesante, e sua madre non vuole capire che ormai è un uomo, anche se lei gli lava ancora i calzini. Vorrebbe dare una svolta alla sua vita, ma non sa neanche da dove cominciare. A dire il vero, la sola idea di abbandonare le sue abitudini -benché noiose- lo spaventa da morire. Ecco perché è inquieto, ecco perché fatica a sorridere.
Filippo, è il suo nome: così l’ha chiamato la donna che è con lui. Effettivamente, ha proprio la faccia da Filippo. Nome serio, viso serio. Sta per scendere. Probabilmente non lo rivedrò mai più.


Venerdì 7 Marzo

Sapete quei visi che catturano l’attenzione per forza? Quelli che notano tutti, perché hanno quel non so che di particolare che rapisce lo sguardo? Ecco, oggi in treno c’era una ragazza con un viso così, di quelli che catturano. Aveva i capelli corti, rossi ramati, con la frangetta e un cerchietto argentato come decorazione. La pelle del viso era di un biancore e di una levigatezza fuori del comune, come le guance di una bambola di porcellana. Ma erano soprattutto gli occhi a non poter passare inosservati: due perle di vetro, di un colore unico, tra il grigio e il blu, quasi argento. Il trucco era dello stesso colore, come se avesse cercato esattamente una matita della stessa identica tonalità dei suoi occhi, per quanto impossibile potesse sembrare ricreare quella sfumatura. Il tutto attirava ancora di più l’attenzione su quello che quei due occhi contenevano, su quell’espressione enigmatica, misteriosa, consapevole dell’interesse che suscitava. Sembrava la classica eroina dei grandi romanzi, un’Anna Karenina dei giorni nostri. Era una di quelle rare persone di cui, al solo incrociarne lo sguardo, desiderereste conoscere la storia, perché danno l’impressione di averne una davvero interessante. Benché giovane, aveva l’espressione di una persona che si è resa indipendente, e che è orgogliosa di esserlo. Una che se ne frega del giudizio degli altri, soprattutto se negativo. Una che ha degli obiettivi veri per la sua vita, e non guarderà in faccia a niente e a nessuno pur di realizzarli. Una tipa decisa, sicura di sé, che non ama essere in debito con gli altri. Magari tanta indipendenza le ha portato un po’ di solitudine, ma non fa niente. Meglio passare il venerdì sera da sola nel proprio monolocale, piuttosto che dover rinunciare ai suoi progetti.. per cosa, poi? Per una birra con gli amici?
La felicità? La vita da vivere giorno per giorno? Sciocchezze da idealisti, le ha abbandonate insieme all’adolescenza. La vita è tutta un’altra cosa. Bisogna lottare per andare avanti.


Mercoledì 12 Marzo

Ha l’aria un po’ scontrosa, come se le desse fastidio sentirsi osservata. A prima vista, potrebbe essere benissimo una giovane straniera: capelli di un biondo innaturale (eppure non tinti), incarnato pallido, occhi azzurro ghiaccio che mi lanciano sguardi sospettosi, tra due righe marcate di eye liner nero. Svedese? Tedesca? Una turista in gita a Firenze? Ma poi le poche parole che rivolge alla compagna di viaggio tradiscono origini ben più comuni. E decisamente italiane.
Ha delle buffe scarpe, marroni con dei pois rosa. Guardo meglio e mi viene da sorridere: sulla suola di gomma bianca, con una grafia minutissima, un pennarello indelebile ha fermato chissà quale frase storica.. Cose da ragazzi..
Sfoglia attenta una rivista di moda, fa un commento su un abito. Sembra che se ne intenda. Ora il giornale è chiuso. La ragazza guarda fuori dal finestrino con un’espressione assorta, le cuffie dell’i-pod rosa shocking che spuntano dal caschetto biondo. Dondola leggermente la testa.. chissà che musica sta ascoltando. Chissà da dove viene, e dove va. Il sedile di fronte a lei è letteralmente sommerso di sacchetti e buste di vari negozi.. Giornata di shopping sfrenato?
Scende a Figline. Solo ora noto lo zaino rosso, anche quello ricoperto di scritte a pennarello. Probabilmente è “solo” una liceale che oggi ha deciso di far forca e andare a fare spese.. Eppure, per un attimo, a me era parsa una straniera in gita di piacere nel Bel Paese..


Venerdì 14 Marzo

Sembra una bambina, mentre dorme. Gli occhi chiusi, la bocca un po’ imbronciata e la testa piegata contro il finestrino, non sembra curarsi dell’andatura “barcollante” del treno. Un caschetto castano, con tanto di frangia, le incornicia il viso dai tratti delicati. E che nasino buffo! Ha l’aria di una bambolina corrucciata. Avrà la mia età, ad occhio e croce. Chissà come si chiama, che storia ha, cosa vuole dalla vita. Andrà all’università? E magari ha anche un lavoretto, per essere più indipendente. Forse ha un fidanzato.. speriamo che non la faccia soffrire, come si fa a far soffrire un visino così dolce? Sicuramente avrà un’amica del cuore, una a cui confida le sue speranze ed incertezze.. Me le immagino, sedute in un bar del centro, su quegli sgabelli alti che sembrano dei trespoli, giocando a fare le signore.. Scherzano, una dice una battuta all’orecchio dell’altra, e scoppiano a ridere insieme. Commentano maligne i vestiti delle altre, e sorridono vedendo passare un bel ragazzo. Avranno progettato il loro futuro, sperando di passarne il più possibile insieme. Perché ormai sono grandi per credere nell’amicizia per sempre, quella da frasi fatte sul diario, ma ancora troppo giovani per averne abbandonato l’illusione. Avranno subíto delle delusioni, avranno temuto di perdere la fiducia nelle persone. Ma a vent’anni è facile rialzarsi e guardare al futuro. Sognare un lavoro importante, diventare donne in carriera fasciate in eleganti tailleur, collane di perle e tacchi a spillo. Ma anche una famiglia, certamente. Un marito premuroso, e un figlio.. o, meglio ancora, una figlia, femmina, che venga bella come la mamma. Nei sogni si può avere tutto, quindi meglio far le cose in grande, no?
Chissà se lei sta sognando tutto questo, mentre dorme, con il visino imbronciato..

La sera del 18 maggio 1979..

La sera del 18 maggio 1979 mi caddero gli occhi per terra. Me ne accorsi perché, pur trovandomi in piedi, al centro della stanza, le palme che mi premevano le tempie ed il naso all’insù come se il setto nasale fosse stato preso all’amo e una lenza me lo stesse tirando verso il soffitto, fissavo con un certo orrore un topo che strisciava lungo la parete sotto il letto.
Il mio primo impulso fu di chiamare l’infermiera, perché ci pensasse lei a togliere quel topo. Non mi piaceva l’idea che fosse lì, nella mia stanza. Ma mi bloccai, ancor prima di pronunciare il suo nome, perché mi resi conto che certamente mi avrebbe preso per matto: “Io non vedo nessun topo, te lo devi essere immaginato.. Su, da bravo, non mi far perdere tempo. Ho così tanto da fare, e tu hai sempre voglia di scherzare!”, e, con il suo abituale sorrisetto di compassione, se ne sarebbe andata, lasciandomi con quel topo, che solo i miei occhi per terra potevano vedere. Se le avessi detto che il topo si nascondeva, furbo, sotto il mio letto, mi avrebbe chiesto come facevo a vedere fino a lì, considerata la mia posizione. E se le avessi detto che i miei occhi stavano rotolando sul pavimento, sarebbe rimasta immobile per qualche frazione di secondo, giusto il tempo di assicurarsi di aver sentito bene. Poi, avrebbe inarcato le sopracciglia, irrigidito la schiena e, procedendo in retromarcia, un po’ incerta, sarebbe uscita dalla mia stanza, per poi mettersi a correre lungo il corridoio, l’eco dei suoi zoccoli bianchi sul pavimento, alla ricerca disperata del dottore.
Fu così che reagì la prima volta, quando le dissi che mi era caduto un orecchio. Cavoli, era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere, mi aspettavo un po’ di comprensione.. era forse chiedere troppo? E invece no, lei mi fissò con quello sguardo strano, come di rimprovero, quasi mi avesse sentito bestemmiare. Ed era corsa via, tornando solo dopo una decina di minuti insieme al primario.
Quell’uomo aveva sempre l’aria di saperne una più del diavolo, sembrava che nulla lo potesse sorprendere: anche in quella situazione, si limitò a farmi ripetere più e più volte quello che mi era successo: “Dottore, gliel’ho già detto, mi sono accorto che il mio orecchio è caduto ed è uscito, perché qualche minuto fa, pur essendo qui dentro, ho sentito distintamente la conversazione tra lei e l’infermiera. Sì, esatto, era come se il mio orecchio fosse sulla scrivania del suo studio. Sì, dottore, ogni parola, come se le avesse pronunciate qui davanti a me”. Questa cosa sembrava irritarlo un po’, forse era una conversazione privata, non saprei. Sapete, in questa clinica nessuno si prende mai la briga di spiegarci le cose. Fatto sta che mi portarono su, al secondo piano, dove portano quelli che di notte urlano nel sonno. Non fu bello, proprio per niente. Chiesi loro perché dovevo stare lì a soffrire, mentre un mio orecchio se ne vagava chissà dove.. ma anche lì, ovviamente, nessuna risposta.
Mi ci volle un po’ per riprendermi, e nel frattempo aspettai con ansia che il mio orecchio tornasse da me, perché mi spaventava un po’ questa cosa che lui potesse andarsene in giro fuori dall’ospedale, mentre io rimanevo chiuso dentro. Poi una mattina tornò, e sentii tutto quello che lui aveva udito in quei giorni lontano da me: le voci degli uomini, il rumore del mare, le urla del cielo quando si arrabbia. E fu come se una parte di me fosse riuscita a superare le alte mura di recinzione, e avesse ascoltato il mondo che c’era oltre di esse. Quindi, quando, qualche mese dopo, mi cadde la lingua, non mi spaventai troppo.. Non dissi niente a nessuno, e aspettai impaziente il suo ritorno. Seppi allora che aveva parlato con tante persone, ma anche con tanti animali. Aveva mangiato un gelato, aveva baciato, aveva fatto una linguaccia, perché un bambino l’aveva fatta a lei.
Poi fu la volta delle mani, che toccarono ogni superficie, vivente e non, e mi spiegarono cosa si prova ad accarezzare la seta, a passare le dita tra i capelli di una ragazza, ad impiastricciarsi con lo zucchero filato. E i piedi? Ah, i piedi.. quante strade hanno percorso i miei piedi quando se ne andarono! Hanno camminato scalzi sull’erba bagnata, sono stati in bilico su tacchi che sembravano trampoli, hanno dato calci a chi aveva cercato di fermarli.
Ma quella sera del 18 maggio 1979, quando mi caddero gli occhi, fu la volta più emozionante. Dopo aver visto quel topo sotto al mio letto, gli occhi uscirono dalla mia stanza, scesero le scale della clinica e se ne andarono anche loro per il mondo. E quando tornarono, mi fecero vedere il disco rosso del sole tramontare sul mare, e ne rimasi incantato. Vidi nascere un bambino, e vidi morire suo nonno. Poi riconobbi la casa dei miei genitori: vidi mia madre piangere davanti ad una mia foto da ragazzo, e mio padre scrutare di nascosto mio fratello, cercando nei suoi tratti il mio viso. Attraverso quei miei due occhi vagabondi, andai al cimitero, e trovai, tra le tante lastre di marmo, quelle che recavano il nome di mia moglie e mio figlio.
In quel momento, quando, dopo tanti anni, i miei occhi mi fecero vedere quello che non avevo mai più voluto vedere, fu il mio cuore a cadere. Lui non andò in giro per il mondo, ma rimase lì, per terra, immobile. Me ne accorsi perché, da un momento all’altro, non sentii più nulla.”