26.5.08

La sera del 18 maggio 1979..

La sera del 18 maggio 1979 mi caddero gli occhi per terra. Me ne accorsi perché, pur trovandomi in piedi, al centro della stanza, le palme che mi premevano le tempie ed il naso all’insù come se il setto nasale fosse stato preso all’amo e una lenza me lo stesse tirando verso il soffitto, fissavo con un certo orrore un topo che strisciava lungo la parete sotto il letto.
Il mio primo impulso fu di chiamare l’infermiera, perché ci pensasse lei a togliere quel topo. Non mi piaceva l’idea che fosse lì, nella mia stanza. Ma mi bloccai, ancor prima di pronunciare il suo nome, perché mi resi conto che certamente mi avrebbe preso per matto: “Io non vedo nessun topo, te lo devi essere immaginato.. Su, da bravo, non mi far perdere tempo. Ho così tanto da fare, e tu hai sempre voglia di scherzare!”, e, con il suo abituale sorrisetto di compassione, se ne sarebbe andata, lasciandomi con quel topo, che solo i miei occhi per terra potevano vedere. Se le avessi detto che il topo si nascondeva, furbo, sotto il mio letto, mi avrebbe chiesto come facevo a vedere fino a lì, considerata la mia posizione. E se le avessi detto che i miei occhi stavano rotolando sul pavimento, sarebbe rimasta immobile per qualche frazione di secondo, giusto il tempo di assicurarsi di aver sentito bene. Poi, avrebbe inarcato le sopracciglia, irrigidito la schiena e, procedendo in retromarcia, un po’ incerta, sarebbe uscita dalla mia stanza, per poi mettersi a correre lungo il corridoio, l’eco dei suoi zoccoli bianchi sul pavimento, alla ricerca disperata del dottore.
Fu così che reagì la prima volta, quando le dissi che mi era caduto un orecchio. Cavoli, era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere, mi aspettavo un po’ di comprensione.. era forse chiedere troppo? E invece no, lei mi fissò con quello sguardo strano, come di rimprovero, quasi mi avesse sentito bestemmiare. Ed era corsa via, tornando solo dopo una decina di minuti insieme al primario.
Quell’uomo aveva sempre l’aria di saperne una più del diavolo, sembrava che nulla lo potesse sorprendere: anche in quella situazione, si limitò a farmi ripetere più e più volte quello che mi era successo: “Dottore, gliel’ho già detto, mi sono accorto che il mio orecchio è caduto ed è uscito, perché qualche minuto fa, pur essendo qui dentro, ho sentito distintamente la conversazione tra lei e l’infermiera. Sì, esatto, era come se il mio orecchio fosse sulla scrivania del suo studio. Sì, dottore, ogni parola, come se le avesse pronunciate qui davanti a me”. Questa cosa sembrava irritarlo un po’, forse era una conversazione privata, non saprei. Sapete, in questa clinica nessuno si prende mai la briga di spiegarci le cose. Fatto sta che mi portarono su, al secondo piano, dove portano quelli che di notte urlano nel sonno. Non fu bello, proprio per niente. Chiesi loro perché dovevo stare lì a soffrire, mentre un mio orecchio se ne vagava chissà dove.. ma anche lì, ovviamente, nessuna risposta.
Mi ci volle un po’ per riprendermi, e nel frattempo aspettai con ansia che il mio orecchio tornasse da me, perché mi spaventava un po’ questa cosa che lui potesse andarsene in giro fuori dall’ospedale, mentre io rimanevo chiuso dentro. Poi una mattina tornò, e sentii tutto quello che lui aveva udito in quei giorni lontano da me: le voci degli uomini, il rumore del mare, le urla del cielo quando si arrabbia. E fu come se una parte di me fosse riuscita a superare le alte mura di recinzione, e avesse ascoltato il mondo che c’era oltre di esse. Quindi, quando, qualche mese dopo, mi cadde la lingua, non mi spaventai troppo.. Non dissi niente a nessuno, e aspettai impaziente il suo ritorno. Seppi allora che aveva parlato con tante persone, ma anche con tanti animali. Aveva mangiato un gelato, aveva baciato, aveva fatto una linguaccia, perché un bambino l’aveva fatta a lei.
Poi fu la volta delle mani, che toccarono ogni superficie, vivente e non, e mi spiegarono cosa si prova ad accarezzare la seta, a passare le dita tra i capelli di una ragazza, ad impiastricciarsi con lo zucchero filato. E i piedi? Ah, i piedi.. quante strade hanno percorso i miei piedi quando se ne andarono! Hanno camminato scalzi sull’erba bagnata, sono stati in bilico su tacchi che sembravano trampoli, hanno dato calci a chi aveva cercato di fermarli.
Ma quella sera del 18 maggio 1979, quando mi caddero gli occhi, fu la volta più emozionante. Dopo aver visto quel topo sotto al mio letto, gli occhi uscirono dalla mia stanza, scesero le scale della clinica e se ne andarono anche loro per il mondo. E quando tornarono, mi fecero vedere il disco rosso del sole tramontare sul mare, e ne rimasi incantato. Vidi nascere un bambino, e vidi morire suo nonno. Poi riconobbi la casa dei miei genitori: vidi mia madre piangere davanti ad una mia foto da ragazzo, e mio padre scrutare di nascosto mio fratello, cercando nei suoi tratti il mio viso. Attraverso quei miei due occhi vagabondi, andai al cimitero, e trovai, tra le tante lastre di marmo, quelle che recavano il nome di mia moglie e mio figlio.
In quel momento, quando, dopo tanti anni, i miei occhi mi fecero vedere quello che non avevo mai più voluto vedere, fu il mio cuore a cadere. Lui non andò in giro per il mondo, ma rimase lì, per terra, immobile. Me ne accorsi perché, da un momento all’altro, non sentii più nulla.”

Nessun commento:

Posta un commento